
Eccomi, tornata dopo il mio Ulysses.
Una giornata solitaria a Trieste, ripercorrendo le orme di Leopold Bloom.
Stamane ho sostenuto l’esame di idoneità di francese presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori. Saprò se potrò frequentarla soltanto lunedì prossimo, il 10. L’attesa mi estenua. Voglio entrare, devo entrare. Fallire significherebbe deludermi per la prima volta, infrangere il mio primo e importante progetto di vita. E mi lascerebbe sola con neppure il famigerato pugno di mosche, perché davvero non saprei proprio cosa fare. Anzi, lo saprei benissimo, ma sono opzioni davvero difficili da mettere in atto.
Non posso rinunciare all’idea della mia prossima vita triestina, della mia prima casa, della mia emancipazione.
Trieste è proprio la città dei sogni, ha uno charme segreto che pochi riescono a cogliere. Trieste è unica ma poliforme, sconosciuta, attraente ma scontrosa, animata da mille voci.
Certo, lo charme è minore rispetto a quello della mia Parigi, tant pis, sarà la mia prossima e definitiva meta.
Trieste mi ha subito stretta a sé perché non ha proprio niente di italiano, perché chi ci abita non è italiano. Qui ci stanno gli austriaci, qui ci stanno gli slavi, qui ci stanno gli apolidi. Trieste ha un’anima plurima, una città fatta per poeti, per narratori.
Mare, porto, bora, luce che pervade e la fa risplendere, prospettive urbane delle colline, quotidiana voluttà che si spende nei caffè, nell’avventura di una viuzza che sale l’erta curvilinea.
La mia mappa individua otto cimiteri di culti diversi. Ho incrociato una sinagoga e una chiesa ortodossa. Si vendono fette di Sacher Torte, ma la luce che illumina e infrange la vetrina della pasticceria è quella mediterranea. Lo spirito asburgico è commistionato nell’aria da una specie di Oriente, di un esotismo temprato ai venti dei Balcani.
Il vento soffia fortissimo, per questa ragione la nomino una delle mie città preferite: mi scompiglia i capelli, quindi non c’è motivo di pettinarmi prima di uscire.
Trieste è una città di frontiera, come me.
Una giornata solitaria a Trieste, ripercorrendo le orme di Leopold Bloom.
Stamane ho sostenuto l’esame di idoneità di francese presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori. Saprò se potrò frequentarla soltanto lunedì prossimo, il 10. L’attesa mi estenua. Voglio entrare, devo entrare. Fallire significherebbe deludermi per la prima volta, infrangere il mio primo e importante progetto di vita. E mi lascerebbe sola con neppure il famigerato pugno di mosche, perché davvero non saprei proprio cosa fare. Anzi, lo saprei benissimo, ma sono opzioni davvero difficili da mettere in atto.
Non posso rinunciare all’idea della mia prossima vita triestina, della mia prima casa, della mia emancipazione.
Trieste è proprio la città dei sogni, ha uno charme segreto che pochi riescono a cogliere. Trieste è unica ma poliforme, sconosciuta, attraente ma scontrosa, animata da mille voci.
Certo, lo charme è minore rispetto a quello della mia Parigi, tant pis, sarà la mia prossima e definitiva meta.
Trieste mi ha subito stretta a sé perché non ha proprio niente di italiano, perché chi ci abita non è italiano. Qui ci stanno gli austriaci, qui ci stanno gli slavi, qui ci stanno gli apolidi. Trieste ha un’anima plurima, una città fatta per poeti, per narratori.
Mare, porto, bora, luce che pervade e la fa risplendere, prospettive urbane delle colline, quotidiana voluttà che si spende nei caffè, nell’avventura di una viuzza che sale l’erta curvilinea.
La mia mappa individua otto cimiteri di culti diversi. Ho incrociato una sinagoga e una chiesa ortodossa. Si vendono fette di Sacher Torte, ma la luce che illumina e infrange la vetrina della pasticceria è quella mediterranea. Lo spirito asburgico è commistionato nell’aria da una specie di Oriente, di un esotismo temprato ai venti dei Balcani.
Il vento soffia fortissimo, per questa ragione la nomino una delle mie città preferite: mi scompiglia i capelli, quindi non c’è motivo di pettinarmi prima di uscire.
Trieste è una città di frontiera, come me.
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